Sospeso tra passato e presente, cerniera tra tempo antico e contemporaneo, Moon Kin, ultimo lavoro del poliedrico artista Emanuele Triglia, ha il pregio di dischiuderci la sua prospettiva poetica e filosofica, in un perfetto connubio tra tradizione e modernità, testamento di una concezione di musica stratificata e interconnessa all’ascoltatore.
Concepito come un affascinante viaggio, l’album, che nel nome sembra richiamare un misterioso movimento (kin) lunare (moon), conduce l’ascoltatore in un groviglio di stili e sonorità, destreggiandosi tra jazz, hip hop, psichedelia e canto popolare, forzando i confini creativi di Herbie Hancock fino ad abbracciare l’energia materica di J Dilla e l’eclettismo di Nick Hakim.
Pacì, secondo singolo estratto, si inserisce a perfezione in un quadro del genere, ideale anello di congiunzione tra passato artistico (sassofono e pianoforte) e nuova evoluzione stilistica (fatta di contaminazioni più marcate e flirt tra generi diversi) di Triglia, come esemplare fusione di jazz e hip-hop; in un mix inedito e attuale, contemporaneo ma con radici salde nel passato.
Come racconta lo stesso artista, l’origine del brano è puramente casuale, frutto di una scoperta inaspettata e curiosa. Mentre è in vacanza a Scilla, ospite di una casa sulla suggestiva scogliera di Punta Pacì, Triglia trova un pezzo di bamboo essiccato restituito dal mare, un oggetto apparentemente inutile che però scatena la fantasia dell’artista, che gli dona una seconda vita praticandogli a caso dei fori, come se fosse un flauto. Al soffiare al loro interno, escono suoni nuovi e impensati, a creare una nuova scala, con tonalità mediterranee, evocative di universi lontani e al tempo stesso così radicati in terra calabrese, melting pot di culture variegate e contaminate.
Un ritrovamento del genere sembra quasi assumere il sapore di una scoperta straordinaria, guidata da forze soprannaturali e magiche, in quel lembo di terra al confine con la Sicilia, tra le mitologiche Scilla e Cariddi, mostri spaventosi in eterna lotta in un mare burrascoso e però così affascinante e misterioso. L’atto dell’invenzione è un atto filosofico, rivoluzionario, Triglia-Ulisse naviga il mare e inventa nuovi antichi suoni che riecheggiano il canto dei pescatori, le litanie degli uomini di mare, testimoni di un tempo oscuro e lontano e già così vicino a noi.
In tal senso allora va letta Pacì, felice commistione di sonorità multiformi, a creazione di un enorme mosaico simbolico dove lingue diverse, canti, urla, preghiere, suppliche e scioglilingua si sovrappongono, nel tentativo di restituirci un quadro composito e variegato del mare, figura ambivalente, che dà la vita ma la toglie anche.
L’importanza della scelta dei suoni diventa allora fondamentale, così come le parole del testo, poche e selezionate, cullate dall’arrangiamento e dalla creatività di Davide Ambrogio, polistrumentista calabrese, legatissimo al suo territorio (nei suoi brani da solista è solito usare il dialetto dell’Aspromonte meridionale), e figura chiave dell’album per restituirci un linguaggio arcaico ed universale, attraverso la selezione di sonorità senza barriere, realizzate con strumenti tradizionali e moderni.
Pacì si apre con un’introduzione di flauto che sceglie di replicare i suoni usciti dalla scoperta di Triglia sulla spiaggia - a sottolineare l’immediatezza e casualità del momento - quasi fosse musica proveniente da un’altra dimensione eppure attuale, malinconica e magica, giocata su scale mediterranee, tra richiami di classicità greca e sinuosità araba.
Dopo pochi secondi, ecco subentrare il tappeto percussivo di stampo jazz, a cui immediatamente fa da contraltare la sezione di fiati che sembra richiamare una processione di macchine del Sud Italia, a conferire un’aurea di solennità al brano, su cui continua a giocare il flauto magico del dio Pan, sfuggente, sensuale e imprevedibile. La ripetizione del tema - con lievi variazioni - nella seconda strofa, traghettata da un bridge fluttuante di flauto, non è casuale ma funzionale alla narrativa dell’artista, come eco dei versetti di una preghiera o litania, in un sincretismo religioso che mette insieme Poseidone, Dio, l’uomo marinaio e pescatore.
La seconda parte, su un fondo percussivo puntellato da variazioni di fluato, vede l’entrata in scena del canto (in dialetto calabrese) che ripete poche frasi ma significative, a sottolineare il legame atavico tra mare e marinaio, come prece e richiesta di aiuto, celebrazione terrorizzata ma così speranzosa. Se in un primo momento il canto sembra provenire da un’altra dimensione, quasi da dentro il mare, in un secondo momento cresce e sembra emergere dai flutti misteriosi, si impone, si eleva, atterrito e atavico.
“Cu l’a salvari l’alma mia
Cca du mari fu apputtata
Unni mi vogghiu marinà
mi lassa sulu e mi nni vo”
“Chi deve salvare l’anima mia
Che dal mare è stata portata via?
Dove mi voglio fare marinaio
mi lascia solo e io ci vado”
Queste poche frasi, ripetute come un mantra quattro volte, lasciano intravedere quell’affascinante essere che è il mare, a cui un marinaio sembra chiamato per destino e tradizione, una chiamata che non può rifiutare, che coinvolge non solo la dimensione corporea ma anche quella spirituale e ulteriore. Un tappeto che si distende all’infinito, il mare magnum degli antichi, capace di generare horror e speranza al tempo stesso, viaggio oscuro e per questo magnifico.
Il canto sparisce, inghiottito dai flutti da dove era venuto, e lascia spazio al mare, il vero protagonista del brano, sfondo e superficie dove si gioca il destino dell’uomo, luogo senza tempo, spazio immenso, viaggio infinito.
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